Eh già! Pare che il motto “Only hawks go to central banker heaven” sia sempre più di voga fra i banchieri centrali e la trasformazione di 'stevensioniana' memoria del Presidente della Federal Reserve in qualche modo ci porta a pensare che sia effettivamente così...

Le parole “continuare così finché il lavoro non sarà finito” in combo con gli ultimi dati decisamente poco confortanti sull'inflazione hanno messo a dura prova i nervi del mercato. Ora, che abbiamo pure rimesso in soffitta le tre streghe, pare però che l'attesa sia tutta per la giornata di domani, quando Jerome Powell svelerà l'entità della nuova stretta sui tassi.
Il secondo rialzo di 75 pt. di fine luglio ha portato il range di riferimento tra il 2,25% e il 2,50% e se è vero che questo ha già stabilito un record a se stante (le strette di giugno e luglio sono infatti i due rialzi consecutivi più consistenti da quando la Fed ha iniziato a utilizzarli come strumento privilegiato di politica monetaria all'inizio degli anni ’90) è altrettanto vero che ci troviamo solo all'inizio del ciclo.

Quello di domani sarà con ogni probabilità l'ennesimo +75 punti base, che (fatta eccezione per qualche voce fuori dal coro che è arrivata a ipotizzare un rialzo di 100 pt.) trova tutti gli analisti sostanzialmente d'accordo.
Il fatto che, a quanto emerge da diverse parti, i mercati stiano scontando una probabilità superiore al 50% che anche il prossimo rialzo della BCE sia di 75 punti base piuttosto che di 50 ci porta a pensare che i 75 punti base sia oggi 'the new black'.
Purtroppo quanto fatto finora è ancora troppo poco perché, a dispetto del recente calo dei prezzi energetici (in particolare della benzina) e più in generale di molte commodities, l'inflazione Usa continua a rafforzarsi: complessivamente si è indebolita, anche se il ritmo di marcia si discosta da quello auspicato dal consensus, però si rafforza nella sua componente core.

Il focus si sposta quindi su tre punti fondamentali:

1. Il potenziale rischio recessivo

Si, perché l'aumento del range di riferimento combinato con l'irrigidimento delle condizioni finanziarie conducono inevitabilmente a una revisione in negativo per i PIL e per l'occupazione. Nel merito si è recentemente espressa anche la Segretaria al Tesoro Yellen (ex preside Fed) che ha bollato uno scenario recessivo come “affatto escludibile in questo momento” e la possibilità di una crisi come “un rischio da correre”.


2. Per quanto a questo ritmo?

Novembre? Gennaio? Difficile dirlo, ma l'idea che personalmente mi sono fatto è che per considerare “il lavoro (in parte) finito” si debba assistere a un percorso al ribasso di diversi mesi dell'inflazione core, prima di un'eventuale allentamento. Purtroppo considerata l'accelerazione degli aumenti salariali, il motore potrebbe rimanere su di giri ancora a lungo, portando ormai certamente i tassi di riferimento a sfondare la barriera del 4%. Per evitare un’ulteriore accelerazione dei salari sarebbe necessario che il mercato del lavoro sia penalizzato da un aumento della disoccupazione, che si verificherebbe in risposta all’inasprimento delle condizioni finanziarie. Il che ci porta dritti al punto successivo.


3. 'The worst case scenario' e la Fed

Se quindi l’economia Usa si indirizzasse decisa verso uno scenario recessivo, che si estenderebbe a cascata sulle economie dei mercati sviluppati, come reagirebbe la Fed? La mia idea è che, a meno che non si verifichi un grave crollo finanziario (ipotesi alquanto remota), non assisteremmo a un brusco dietrofront sulla politica monetaria.
Perché se prendiamo per buono il detto “errare è umano, perseverare diabolico” Powell&Co. dovranno fare di tutto per evitare gli errori del passato, quando la fretta di invertire la rotta non appena aver registrato un picco di inflazione, ha di fatto spianato la strada per un successivo periodo di inflazione verso picchi ancora più elevati.
Avendo poi quasi perso la faccia con la quanto mai impropria previsione circa un'inflazione “transitoria”, un consolidamento duraturo dei tassi a livelli alti diventa quindi lo scenario più probabile.
Il tutto mi porta a ritenere meno probabile che un eventuale recessione (seppur contenuta) sia seguita da una ripresa a “V”.
In primo luogo perché questa “non transitorietà” dell'inflazione impedirà di fatto alle banche centrali di allentare significativamente la politica monetaria in tempi brevi.
Soltanto secondariamente perché il programma di riduzione del bilancio federale da poco avviato, non consentirebbe di tutelare massicciamente i mercati finanziari come avvenuto nel corso delle crisi più recenti.


L'orizzonte dei mercati è quindi molto più ampio del nostro e va ben oltre il singolo dato, che - sia chiaro - ha la sua importanza, ma va necessariamente osservato in prospettiva.
Vale la pena soffermarsi a riflettere sul fatto che, 'fase correttiva profonda' o 'quasi-bear market' che sia , una grossa fetta dell'insieme delle dinamiche analizzate sono state certamente già state masticate, digerite e rigurgitate dal mercato e hanno trovato la loro espressione nella dinamica dei prezzi.

Non dimentichiamoci che il mercato è un po' come noi: emotivo. Passa da fasi di estrema euforia a fasi pessimistico-depressive attraverso fasi di noia e apatia. E che, come noi del resto, qualche volta può sbagliare.
Il meglio che possiamo fare è assecondarlo.

Come sarà quindi l'inverno a cui andiamo incontro?



(certamente seguirà ASAP un “S&P 500 - Quadro tecnico di medio periodo”)



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